Palloni sgonfiati da un’ordinanza del Governatore

I primi esperimenti degli aerostati livornesi

Palloni sgonfiati a Livorno
L’aerostato Genova del capitano Brunner che si alzò dal parco Eden il 28 agosto 1904. (coll. A. Catarzi – Livorno)

Pochi mesi dopo che Montgolfier aveva lanciato, il 5 giugno 1783, la sua macchina aerea alla presenza degli abitanti di Annonay meravigliati, si volle anche da noi studiare questa portentosa scoperta e si iniziarono varii esperimenti servendosi di relazioni pervenute dalla vicina Pisa e da Firenze, ove già erano stati fatti tentativi pienamente riusciti.

Il 14 gennaio 1784 veniva innalzato a Pisa dal dott. Fontana un pallone volante di seta bianca verniciata; a Firenze, quattro giorni dopo, a mezzogiorno, Francesco Henrion pistoiese, architetto e pittore, impiegato all’Archivio delle Decime granducali, riuscì egli pure a far sollevare un pallone: un globo aerostatico di carta, di non indifferente grandezza e di bella figura. L’Henrion si offrì inoltre di costruirne uno di drappo ingommato capace di sollevare delle persone.
 Il 22 dello stesso mese il padre lettore D. Bernardo De’ Rossi, unitamente al P. lettore D’agostino da Rabarta, monaci benedettini cassinesi, lanciarono anch’essi un globo aerostatico composto di una sottilissima membrana conosciuta sotto il nome di “pelle da battiloro” riempita d’ossigeno che andò benissimo in aria. Simile esperimento egli ripetè il 23 nel giardino di Boboli.

Qui a Livorno, invece, il primo esperimento pubblico non andò bene. Un cronista dell’epoca così ne parla: “1784 – Martedì 2 marzo – Giuseppe Batacchi chirurgo ha voluto fare la prova del pallone volante a mezzogiorno. E’ stato fatto partire dal tetto dei Tre Palazzi, ma dopo essersi alzato due braccia, è ricaduto sul tetto medesimo: in Piazza era intervenuta una grandissima quantità di popolo, alle finestre, dai tetti e terrazzi per vedere questa prova che in ogni dove ha avuto esito felice e hanno alzato molto; ma qui il nostro dilettante ha avuto la disgrazia di non riuscirvi e dal popolaccio ha avuto delle beffe con far volare i cappelli.
 Quattro giorni dopo, il sabato venne fatta una seconda prova da Niccola Pagani, che fu il costruttore della macchina, sotto la direzione dell’abate Demonteil, cancelliere del Consolato di Francia e dell’abate Giuseppe Torelli, professore di filosofia nel convitto ecclesiastico di San Leopoldo.
 Il pallone era del diametro di nove braccia e di figura quasi conica, venne fatto partire dalla chiostra del Refugio, si alzò felicemente per l’altezza di due miglia e dopo un quarto d’ora scese cadendo nei pressi di Tombolo.
 Ma Giuseppe Batacchi, ostinato a voler fare andare a tutti i costi il suo pallone, convenne il popolo il martedì 9 sulle mura di San Cosimo; il concorso fu infinito: ma per quanto facesse, l’aerostato non volle partire onde dal popolaccio indiscreto ne ha riportato una solenne fischiata. 
Ma il Batacchi, duro! Il giorno dopo fece un altro tentativo; ma il pallone, annoiato, sembra, da tanto insistere, prese fuoco addirittura, e felicissima notte!”
Il sabato 13 dai medesimi dilettanti di otto giorni prima, ne venne innalzato uno dalla Piazza Grande del dimetro di 80 braccia, che portava un uomo di foglio, più grande della statua di Ferdinando I e dopo circa una ventina di minuti andò a cadere presso i Lupi.
Il concorso di popolo fu straordinario. “Serva il dire – scrive il cronista – che tutte le botteghe di Livorno sono state in quel tempo serrate, i tetti, le finestre e la piazza erano ripiene, senza contare i luoghi della città e della campagna, perché da pertutto si accorreva”. E concludeva: “Questo sì che è stato uno spettacolo assai gradito dal popolo e merita ogni lode.” La frenesia per queste esperienze era entrata davvero nel buon popolo nostro: “E già l’audace esempio
 i più ritrosi acquista;
  già cento globi ascendono del cielo alla conquista.”
La domenica 14 Francesco Casini, dal terrazzo del Console d’Inghilterra, ne lanciava tre di quaranta braccia; il 23 martedì, dalla Piazza se ne mandava dai soliti dilettanti, in presenza di una immensa folla, uno grandissimo di 120 braccia di circonferenza, fatto di fogli a scacchi bianchi e rossi, con appeso un uomo di paglia avente in braccio una pecora viva; ma appena innalzato, si stracciò e cadde con grande delusione degli spettatori.

Altri palloni furono lanciati: uno il 24 dalla piazzetta del Luogo Pio e un altro il 25 dalla “Casina delle Ostriche”.
 Fino a che il Governatore, per ovviare a possibili danni, emise la seguente ordinanza in data 17 aprile 1784:
“L’ Ill.mo e chiarissimo sig. Senatore Conte Bali Federico Barbolani dei Conti da Montauto, Governatore di Livorno, fa pubblicamente notificare come resta proibito a chiunque fare innalzare in questa città e giurisdizione palloni aerostatici, ossia volanti, i quali facendosi per lo più da persone imperite, altro non sono che un giuoco da fanciulli, molto pericoloso a cagione del fuoco che portano seco in aria, capace di produrre dei funesti inconvenienti, sotto pena ai trasgressori di scudi 10 per ciascuno e per ciascuna volta da applicarsi per un terzo all’Accusatore e per gli altri due terzi a due spedali di questa città, al pagamento della qual pena saranno tenuti i padri per i loro figli.
Riservandosi S. S. I.ma e Clarissima d’accordare la licenza quando da persone intelligenti voglia farsi in tempo e luogo opportuno qualche esperienza che possa contribuire ad estendere le cognizioni sopra tale scoperta e sopra gli usi della medesima. F.to Filippo Cioni, Cancelliere”.

09/17/2016  – M.M. Livorno ©

Don Giovanni Ambrosio Mazenta: dalla Porta Nuova ai codici di Leonardo.

Il barnabita Giovanni Ambrosio Mazenta

La strana storia di un poliedrico barnabita del ‘600 che disegnava bastioni a Livorno per il Granduca Ferdinando e voleva salvare gli scritti del Genio Universale.

Religioso, diplomatico, architetto militare e civile. Ingegnere idraulico, dottore in diritto civile ed ecclesiastico, giureconsulte di Milano, nonché cavaliere dell’Ordine gerosolimitano.
Giovanni Mazenta (Milano 1565 – Roma 1635) è sicuramente un uomo poliedrico, uno specialista ad ampio raggio, dotto in molti e svariati campi[1]. Una miscela di erudito intellettuale e tecnico in stampo rinascimentale, poco conosciuto, ma molto attivo nel primi anni del 1600 in tutta Italia, da Asti a Loreto, Bologna, Napoli, Cremona, dove ristruttura e converte edifici religiosi o ne costruisce di nuovi.
Il Mazenta sarà anche a Pisa dove progetta la trasformazione di San Frediano[2] ed è impegnato a Livorno, proprio negli anni in cui grandi cantieri affrontano sotto la guida attenta di Ferdinando le nuove sfide progettuali legate all’edificazione della nuova città. 

Uomo abile, esperto e di salda fede il cui carisma emana ancora dall’esile, ma decisa figura che osserviamo nel dipinto che lo ritrae come Padre Generale di Milano, rintuzzato nella severa tunica nera dell’Ordine barnabita. Un abito che lo studente Mazenta non aveva  ancora indossato quando a Pisa nel 1587, alla morte del Granduca Francesco I°, si trova al centro di una curiosa vicenda legata a Leonardo da Vinci e al suo straordinario patrimonio di scritti e disegni, una storia che accompagnerà il Mazenta fino alla morte[3] compreso il periodo pisano e dei progetti livornesi.

 

Il primo barnabita a Livorno

Padre Mazenta nasce nel 1565 da nobile famiglia milanese.[4]
Nel 1590 a ventisei anni, terminati gli studi di diritto all’Università di Pisa[5] entra nella Compagnia dei Barnabiti con il nome di Giovanni Ambrosio. Vi resta per oltre 40 anni, fino a coprirne le cariche più importanti.

Ordinato sacerdote nel 1594 arriva alla più alta carica dell’Ordine, Preposto Generale (o semplicemente Il Generale) dei barnabiti dal maggio 1612 all’aprile 1614. Poi è Preposto del Collegio dei bernabiti di Pisa nel triennio 1599-1602, di Bologna nel triennio 1602-1603 e di nuovo di Pisa negli anni 1605-1607. Preposto a San Paolo nel 1611 e 1612. Assistente generale nei trienni 1617-1620, 1626-1629, 1630-1635. Ancora Preposto a Roma a San Paolo tra il 1623 e il 1626,  dove muore il 23 dicembre 1635 all’età di 70 anni.

Stimato costruttore e architetto dell’Ordine[6], noto per la vasta cultura e per l’eccellenza nelle questioni  giuridiche, fervente polemista, Padre Mazenta non mancò di farsi apprezzare da principi, papi, stati e artisti per le sue doti umane e per la profonda cultura e competenza tecnica, per la capacità diplomatica e le sue pratiche abilità nei maneggi. Fu consulente per i Veneziani e a Roma per il Cardinale Francesco Barberini (nipote di Papa Urbano VIII). Ferdinando d’Austria cardinale e governatore di Milano se ne avvalse come oratore presso Margherita di Savoia duchessa di Mantova. Carissimo a Clemente VIII, a Paolo V e a Gregorio XV. Forte anche il legame con i Granduchi di Toscana. Il Mazenta era in frequentazioni con Francesco I° e intrattiene solidi rapporti di lavoro con il nuovo Granduca Ferdinando che lo tiene in molta considerazione e col quale sembra avere e una sorta di rapporto fiduciario se il Mazenta stesso ci  racconta che per il mausoleo della cappella di San Lorenzo, Ferdinando lo compensò con 400 scudi d’oro; per un mese lo volle ospite; gli diede libero accesso alla galleria e tre ore ogni giorno intervenne alle consulte. Ferdinando disposto a favorire i barnabiti più volte gli diceva “Vedete che chiesa nè stati miei fa per Voi, ed io ve la procurerò”.
Non è forse un caso che il Mazenta possa considerarsi il primo barnabita giunto a Livorno e che pochi anni dopo prendesse stanza in città la prima comunità barnabita e … e di li a poco si provveda alla ideazione e poi alla costruzione della Chiesa di San Sebastiano[7].

I quartieri militari di Porta Nuova nella città medicea

A Pisa, il Mazenta torna nel 1599 eletto Padre Preposto (Superiore) del Collegio barnabita di quella città per il triennio 1599-1602.
Le date della sua presenza a Pisa concidono con il fermento che in quegli anni è intorno ai nuovi progetti del Granduca per Livorno. Ed è in quel periodo che il rinomato preposto accoglie l’invito di Ferdinando ed entra a far parte del folto gruppo di architetti e ingegneri impegnati nella costruzione della città buontalentiana.
Di lui ci rammenta il Vivoli che chiosa il Santelli: “Del Padre Giovanni Ambrogio Mazzenta, nobile milanese Cherico Regolare di S. Paolo, scriveva il Santelli (Tom. 5) «Era uomo rinomato assai nel suo secolo per la scienza delle Matematiche, che sublimemente possedeva, e per la sua grande perizia nell’Architettura civile, e militare, abitando appunto nell’anno 1600 nel Collegio dei PP. Bernabiti di San Frediano di Pisa in qualità di Proposto.»”[8]
La presenza del Mazenta a Pisa si collega alle notizie riportate dal Vivoli nei suoi Annali, circa una questione riguardante alcuni disegni per le cortine di Porta Nuova e Porta Colonnella: “Ferdinando I° in fatti facendo molto conto su di lui talenti ordinava si erigessero sù i disegni che gli aveva presentati, le Porta Nuova in marmo bianco, ove già si apriva la Porta a Mare di Livorno, Castello, la quale prendeva poscia il nome di Porta ai Fascetti, perché ivi le legna vi si scaricavano (fascetti in ligure è l’equivalente di fascine in toscano.ndr); quindi il bastione che doveva guardarla a cavaliere delle due Darsene; ed in fine i quartieri militari, che aderenti alle due cortine ricorrevano per un lato dalla Porta Nuova al fosso della Fortezza vecchia, e per l’ altro, dal terrapieno dell’antico bastione del Villano alla Porta Colonnella.”
Il tratto di cortina ancora oggi esistente dietro al monumento dei 4 Mori è dunque probabilmente frutto della progettualità del Mazenta, dal momento che Ferdinando lo incarica di fornire i disegni per bastioni, porte, quartieri militari per la sistemazione dell’area in prossimità dell’antica darsena di Livorno Castello, destinata a diventare nel giro di pochi anni  il nuovo fronte del porto mediceo.

Sempre dagli Annali del Vivoli troviamo altri indizi che sembrano testimoniare le competenze idrauliche del Mazenta e il suo rango nella bolgia degli immensi cantieri della città che ormai prende forma. Nel 1603 non solo erano già terminati tutti i fossi, e i baluardi e rivelini[9], le case di via grande già pittate a graffito.  Così in occasione della visita di Vincenzo I Gonzaga Duca di Mantova[10] e “stante il Granduca Ferdinando in Fortezza” si decide per onorare l’ospite, di di dare acqua ai fossi circondari e a quelli del Lazzareto di San Rocco appena finiti di scavare[11].
Ancora una volta il Vivoli cita altre fonti e fa parlare il cronista Grifoni e ancora una volta compare menzionato Padre Mazenta: “ Di chi fosse disegno il fosso di circonvallazione non vedendosi questo nel progetto del Buontalenti noi saprei dire (…) Il Grifoni poi (Cron.) ha creduto «che (il fosso predetto) fosse «del Principe Don Giovanni dei Medici coll’adesione di Claudio Cucurrano, di Antonio Gantagallina, e del Padre Giovanni Mazzenta de’ Cherici Regolari di S. Paolo.»”

Il Mazenta a Livorno non è una figura marginale, lo si trova operativo in alcune descrizioni, con un ruolo chiave e di supervisione al pari se non sopra i suoi illustri e più noti colleghi[12]: Volle anche il Granduca che il Mazenta con altri ingegneri sorvegliasse la esecuzione dei lavori: “A tutte queste opere faticavano più di 100 bestie da soma, assistendovi sempre il mentovato celebre Padre Mazenta, anche gli ingegneri Don Giovanni de Medici, il Cucurrano, il Cantagallina Antonio, il Pieroni e il Buontalenti.”[13]
Non ci stupiremmo di riconoscere le fattezze di Padre Mazenta fra gli ingegneri e i dignitari, attorno a Ferdinando nella famosa stampa di Jaques Callot, la cui quinta di sfondo insiste proprio sul settore di mura dove il barnabita deve aver più inciso.  Tuttavia il Callot non avrebbe certo trascurato di raffigurarlo nella sua cappa nera e seppure tale eventualità è da scartare non è  difficile immaginare il Mazenta con la schiera dei colleghi a far corte per illustrare e dibattere i progetti della costruenda Livorno con il Granduca.

La vie de Ferdinand Ier de Médicis. 4. Le Grand Duc fait fortifier le port de Livourne: Jacques Callot sculp. Matteo Roselli inv. 1619-1620
La vie de Ferdinand Ier de Médicis. 4. Le Grand Duc fait fortifier le port de Livourne: Jacques Callot sculp. Matteo Roselli inv. 1619-1620

Note

[1] Nella biblioteca dell’Ecole de Medecine a Montpellier in un volume di miscellanee assemblato da Cassano Del Pozzo si conservano due Pareri che sembrano essere stati attribuiti a Padre Mezenta: uno sul modo di supplire le travature bronzee asportate dal portico del Pantheon nel 1625 da Papa Urbano VIII per forgiare ottanta cannoni destinati agli spalti di Castel Sant’Angelo; l’altro sui progetti di restauro della navata e la facciata della basilica di San Giovanni in Laterano su richiesta del Card. Francesco Barberini, in seguto ad altri attribuito e comunque mai eseguiti. Importanti anche le sue competenze idrauliche prestate sia Livorno che a Bologna.

[2] Nota sulla ristrutturazione di San Frediano

[3] Destinatario di una delle sue ultime lettere del 20 novembre 1635 a pochi mesi dalla morte è Cassano Dal Pozzo e riguarda i manoscritti vinciani. Dal Pozzo, nipote dell’arcivescovo di Pisa Carlo Antonio Dal Pozzo, è Accademico della Crusca e dei Lincei e un importante collezionista di stampe, epigrafi, libri ed oggetti d’arte. Nel 1612 dopo aver prestato i suoi servigi al Granduca Ferdinando, si trasferisce a Roma come segretario del cardinale Francesco Barberini. Fu Cassiano dal Pozzo nel 1625, nel seguito del cardinale Barberini nel suo viaggio in Francia nel 1625, che coniò l’appellativo di Gioconda per il capolavoro di Leonardo che dopo il Vasari veniva chiamata Monna Lisa.

[4] Giovanni è il secondo di tre figli di… I fratelli Guido, il primogenito, e Alessandro furono anch’essi esperti di arte, architettura e ingegneria. La famiglia possedeva Palazzo Mazenta a Milano, ancora oggi esistente, in cui alla morte di Giovanni si conservava una importante collezione di quadri e una fornitissima biblioteca.

[5] Il Mazenta venne a perfezionare gli studi in Legge dopo la sua prima esperienza formativa presso l’Accademia degli Accurati del Collegio Borromeo a Pavia.

[6] Lavorò a lungo con il confratello Binago (pianta centrale e confessionale) e anche con i suoi due fratelli carnali. Dopo gli interventi a Pisa il Mazenta è a Bologna come Superiore del collegio di San Michele Arcangelo. Qui nel 1605 è incaricato dal Card. Alfonso Paleotto del disegno e della direzione dei lavori per la ricostruzione della metropolitana San Pietro. Sempre a Bologna progetta e disegna per i canonici regolari la nuova chiesa di San Salvatore. In questa occasione il Mazenta pubblica una Informazione, (era noto per le sue dispute architettoniche) per via delle polemiche sollevate dai suoi disegni ispirati al tempio romano della pace (Archivio di Stato di Bologna pubblicato da P. Boffitto). Suo anche il disegno di San Paolo dei barnabiti di Bologna, che non vedrà compiuta (la cappella maggiore e la facciata sono posteriori). Fra le altre chiese attribuite al Mazenta: San Barbaziano, le chiese già barnabitiche di San Giovanni delle Vigne a Lodi, San Paolo in Macerata, San Carlo alle Mortelle a Napoli, Santa Maria dei Lumi di Sanseverino (“abbellimenti”)

[7] La chiesa di San Sebastiano e i primi bernabiti giunti a Livorno nel 16…. La promessa di Ferdinando oe una chisea (sistemare)

[8] Giuseppe Vivoli – Annali di Livorno (Tomo … nota 107)

[9] Cfr Vivoli Annotazioni all’epoca XII. 142 – Tomo III

[10] Vincenzo I di Gonzaga è il marito di Eleonora de Medici sua cugina. Eleonora infatti è figlia di Francesco I° e di Giovanna d’Austria, figlia dell’Imperatore del Sacro Romano Impero (Ferdinando I) e sorella della madre di Vincenzo I. Si puo supporre che per il nostro Granduca Ferdinando non si trattasse solo della visita del marito di una importante nipote. Vincenzo I era molto accreditato verso la porta turca e il nonno di Eleonora era pur sempre un imperatore e sorella della regina di Francia Maria de Medici, perciò queste visite erano non erano solo occasione di ostenzaione e di magnificenza propagandistica ma veri affari di Stato e di relazione diplomatica sia negli equilibri di alleanze “familiari” fra i potenti nel complesso scacchiere italiano e nel più vasto sempre più importante contesto europeo. A proposito di questo matrimonio vale la pena di riportare una licenziosa curiosità. Per Vincenzo I, che aveva ottenuto l’annullamento del matrimonio dalla prima moglie ….. da cui non era riuscito ad avere figli, si prospettava un nuovo matrimonio con la rampolla di casa Medici, sua cugina. Ma complici le voci e i pettegolezzi circolati sul suo conto dopo il primo matrimonio e l’astiosa Bianca Cappello, amante ufficiale del Granduca Francesco I° padre di Eleonora, si pretese la costituzione di una commissione per verificare la virilità dello sposo. Si fecero dunque i primi esperimenti. Sono almeno due i vani tentativi di Vincenzo I, a cui erano state sottoposte giovani “volontarie”, debitamente risarcite. Pare che al terzo incontro testimoni oculari certificassero l’atto verbalizzandone i dettagli. Vincenzo dette prova del proprio vigore e il 29 aprile 1584 sposa in seconde nozze la diciassettenne Eleonora de Medici.

[11] Cosi il Vivoli descrive gli avvenimenti di quei giorni dell’aprile del 1603 in cui troviamo i lavori in buon stato di avanzamento con già un Duomo, la Chiesa di Santa Giulia e i fossati, compresi quelli del Lazzaretto di San Rocco. Ferdinando inoltre ha già avviato la sua politica del mare e costruisce galere non più a Pisa, ma a Livorno. Per completare l’opera occorreranno altri 10 anni di lavoro: “Trovandosi anzi in quei giorni a Livorno di passaggio per Napoli il Duca di Mantova, si procurava egli il piacere di far varare in mare alla di lui presenza la ridetta galera; come poscia di condurre personalmente lo stesso suo ospite a vedere dar acqua per la prima volta al magnifico fosso di circonvallazione della città, ed agli altri fossi , che aperti attorno alla Fortezza nuova , ed al moderno Lazzeretto di S. Rocco, erano a lui costati tanti tesori, e tanti sforzi (142). In questo mentre, essendo già del tutto all’ordine e pronta la Chiesa di S. Giulia nel lato destro del Duomo, la Compagnia del SS. Sacramento^ la quale portava come già si disse , anche il titolo di detta Santa , abbandonando il vecchio angusto e quasi indecente Oratorio ove sino allora aveva uffiziato posto nella via di 5. Antonio si trasferiva processionalmente alla sua nuova residenza presieduta dal proprio …ematore, che era tuttavia Antonio Pacini , ed accompagnata anche dal Parroco di Livorno Prete Balbiani.”

OTTAVIO DA MONTAUTO (Ottavio Barbolani) Cavaliere di Santo Stefano. Cugino di Giulio nel 1618 successe a Iacopo Inghirami nella carica di grande ammiraglio dell’Ordine e per due anni diresse con varia fortuna, ma quasi sempre con vantaggio, operazioni di polizia navale nel Mediterraneo tenendo in rispetto i Turchi mediante colpi di mano compiuti sulle isole dell’egeo, da cui più volte rientrò a Livorno con naviglio catturato e schiavi cristiani liberati) lo scorta dopo si parti da Livorno per Napoli Naviga agli ordini di Iacopo Inghirami. Nel giugno 1602 ha il comando della “Pisana”. Nel 1603 affianca l’Inghirami in una crociera in Sicilia; ad agosto scorta il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga da Livorno a Napoli.

[12] Cfr. Giuseppe Vivoli Annali di Livorno (tomo III-221)

[13] Mazenta ha sicuramente conosciuto il grande architetto nei cantieri di Livorno negli ultimi anni della vita di Ser Bernardo, che si dice fosse in ultimo un po’ superato dai piu giovani colleghi Cantagallina, Pieroni, Cogorano.

Pieve di Santa Giulia

L’ultima pieve nota nel X secolo è S. Giulia, eretta in località Vuaralda presso i rii Mulinaio e Secco, ricordata in un livello del 14 dicembre 996. La sua collocazione «prope Livorna» appare nell’atto con cui, il 13 novembre 1017, il vescovo Azzo dette in livello a Pietro del fu Suaverico detto Suavizo, della famiglia Orlandi di Pisa, tra le altre cose, i beni della pieve di S. Giulia con i redditi e le decime dovuti dagli abitanti del castello di Livorno e delle ville di «Muro [R]uto, Vuaralda, Tribio Alduli, Salaregi, Rio Maiore, Fundomagno, Septere».
Sono identificabili con maggiore o minore approssimazione Tribio Alduli, ove il 30 marzo 1159 era localizzata la pieve, e Fundomagno, anch’esso presso S. Giulia secondo un atto del 26 aprile 1161.
Il Rio Maggiore scorre a Sud di Livorno e sbocca in mare poco sotto S. Jacopo di Acquaviva. Il piviere di S. Giulia appare piuttosto piccolo e limitato a Livorno e ai suoi dintorni: non si conoscono chiese dipendenti salvo S. Maria, attestata per la prima volta il 30 marzo 1159 e posta, secondo un atto del 22 aprile 1200, nel borgo di Livorno.

Il Mercato della Piazza delle Erbe nell’800

Testimonianze di Giovanni Sainati e Fortunato Signorini, due nonuagenari che ebbero il loro commercio nella piazza.
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Cattura

(1939) Mentre si pensa a demolire il centro per ricostruire con altri criteri la parte più vitale della nostra città, si appuntano gli sguardi su quella Piazza delle Erbe e si domanda: ”Quale sarà nella nuova ricostruzione la sorte di quell’umile stabile dove aprì gli occhi alla luce Pietro Mascagni?”
Sgombriamo subito il terreno da giuste apprensioni. La casa di Mascagni non sarà demolita, rimarrà, anche se dovesse essere incorporata in qualche altra costruzione.
E vediamo ora quale era l’aspetto della Piazza delle Erbe nell’800, il vecchio mercato che per tre secoli circa fu mercato cittadino.
Nello stesso immobile dove nacque Mascagni era il forno l’“Italia” di cui erano dirigenti, o come si diceva allora, ministri i fratelli Domenico e Stefano Mascagni: padre e zio del grande musicista. Il forno l’“Italia” era un panificio della rinomata azienda Tellini che commerciava in cereali e aveva un mulino proprio.
Più tardi il sor Domenico impiantò del proprio un esercizio nella via S. Francesco e questo panificio avrebbe dovuto conservare il nome che aveva.
Il Signorini racconta che nelle sere d’inverno, ragazzo con i ragazzi del quartiere, andava a riscaldarsi nella caldana del biscottificio Tellini, essendo la mamma sua buon amica della madre del Mascagni, ricordata con grande venerazione come un angelo di carità.

Al vecchio mercato livornese a quel tempo, oltre la crociera in muratura costituente l’area coperta, erano le “casine”, costruzioni edilizie dove era situata la macelleria Giannardi, con ingresso principale in via S. Giulia e la macelleria Zigoli all’angolo opposto, verso via della Coroncina. Nel rinomato spazio del quadrilatero, dietro la macelleria Giannardi, c’era il mercato scoperto dei pescivendoli, in faccia alla via del Traforo. Appartenevano a questa categoria i patriotti e garibaldini valorosissimi Arbulla, Franchi, Masi, Lavagi, Dazzi, Coscera, Vicchi, Luperini, Barabino ed altri.
Nell’angolo delle mura del reparto stesso era piazzata la pompa per attingere acqua dalla cisterna, non pozzo, di cui è ancora visibile il chiusino al centro della piazza.
Sulla via S. Giulia, fra la macelleria Giannardi e l’ingresso del mercato chiuso, vi erano banchi per la vendita di polli, agnelli, uova, cacciagione. A tergo della macelleria Zigoli, ma di fronte alla via del Giglio, posteggiavano le erbaiuole ed i venditori di frutta, sotto le tende e ombrelloni ed a ridosso del muro angolare stavano altri banchi per polli, agnelli, uova e caccia dei negozianti Angiolo e Domenico Ricci.
Nell’attiguo secondo braccio di croce trasversale, coperto – lato prosecuzione del “Giglio” e del “Cardinale” – a cui si accedeva da un’arcata, vi era subito a destra, entrando, l’accesso alla scala di un fabbricato a due piani ammezzati, sede della Direzione. Accanto al detto vano delle scale si trovava un’officina di riparazioni di stadere e quindi un banco per pollame e affini; mentre di fronte erano disposte altre bancate per gli stessi articoli, ed agnelli, e burro e formaggi freschi.
Il terzo piazzaletto scoperto, quello di fronte alla via degli Asini – poi Bartelloni – in parte, sulla strada, era occupato da un altro immobile in muratura, a padiglione con breve loggiato anteriore, ove stanziavano banchi di vitellai e norcini. Detto padiglione era diviso in tre ambienti: uno bottega di frutta di certo Izzi; un macello che ebbe diversi affittuari ed il popolare Caffè dei Mille, fondato dal Maggini; esercizi che avevano ingressi di servizio anche sul dietro.
Nel rimanente di questo terzo spazio scoperto, vi erano altri banchi per erbaggi, frutta ed erbe aromatiche, cipolle ed agli ed affini; ed a ridosso del muro del seguente terzo braccio di croce chiuso, verso la strada – tratto dal “Cardinale” a “S. Omobono” – vi erano un banco di pollame ed agnelli, ecc., ed un padiglione di ferro e legname di proprietà del detto Fortunato Signorini, ad uso di macelleria.
Dal Caffè dei Mille alla via S. Omobono, meno che per l’ingresso al mercato coperto, la piazza era contornata da pioli di marmo bianco, ad impedire l’accesso ai veicoli: spasso della gioventù per il gioco del salta e risalta.
Da questo terzo braccio del mercato coperto, a mezzo di una porta a sinistra, si accedeva al quarto ed ultimo quadrilatero scoperto, destinato al mercato all’ingrosso della frutta e sede di posteggio delle gabbrigiane. Accanto a detta porta di comunicazione vi era uno staderone a piatto per il peso pubblico; oltre ad un banco per la vendita di polli, uova e caccia.
Nel quarto ed ultimo braccio cruciale a tettoia – lato ingresso sulla continuazione “S. Omobono, “Traforo” – a destra entrando vi erano banchi di polli, una macelleria ed il banco di pollame, agnelli e caccia del Gonnelli Lorenzo. Di fronte vi erano altri banchi degli stessi generi, la porta di comunicazione col reparto dei pescivendoli ed un padiglioncino mobile per l’ufficio della “Grascia”; a seconda dei casi, spostato in altre parti del mercato.
Il centro del crocevia chiuso, tranne una bancarella per la vendita di pollastri ed affini, era del tutto sgombro.

Alla “corda”, o trave tirante della capriata, sulla comunicazione col 4° braccio e con prospetto sul centro e dall’arcata sottostante alla Direzione, sopra una mensola con gradinata chiusa a guisa di altarino, era esposta un’immagine della SS Vergine col S. Bambino che non mancava di devoti omaggi di candele e di fiori, con permanente lampada a olio. A una quindicina di metri sulla stessa linea, al muro del 3° braccio coperto, sopra il peso pubblico, vi era un altro altare con la Madonna di Montenero; quella tanto ricordata da un devoto truccone che più degli altri ne curava l’addobbo e la manutenzione dei lumi e dei fiori; ma che, come tutti sanno, nella foga di decantare la bellezza di quell’immagine, usava espressioni che erano involontarie eresie.
Le luminare e i fuochi del mercato vecchio per la vigilia del dì otto di settembre, natività della SS Vergine, sono ricordati come decoro e ingegnosità. Ne curava anche a proprie spese, con devota larghezza di mezzi, il fruttivendolo soprannominato “Boccalino”.

In merito al commercio degli articoli per il Presepio che ogni anno per l’occasione si svolge, ora, sulla piazza del vecchio mercato, occorre dire che Pietro Mascagni, bambinello, ammirò estatico ed ebbe la prima Capannuccia acquistata sulla piazzetta laterale del Duomo, lato del Battistero, ove ora è il giardinetto; per cui le bancarelle coi pastori ed i sacri personaggi, da tempo dovettero trasmigrare nel nuovo posteggio. Allora, oltre alle capannucce, si vendevano i “ceppi”: piccole piramidi a base triangolare, di canne con ornamenti di pine dorate e festoni di fichi secchi e bandierine di carta multicolore.

Ultimi dirigenti del Mercato delle Erbe furono un Cartei e Cavallini.
Nel Mercato e nei dintorni tennero i loro esercizi: Meucci, Bianchini, Bosi, Baroni, Fucini, Piram, Menocci, Pasquinelli, Foresi, Rimediotti, Chiocchi, Tocchini, Bartorelli, Donnini, Pieri, Riccomi, Mantovani, Fattori, Bastianelli, Cioni, Bartolicci, Casareni e tanti altri.
Questi sono i ricordati che il Sainati, il quale aveva il macello in via S. Giulia e il Signorini che ebbe un pastificio in via S. Omobono, hanno rievocato a proposito dell’antica piazza delle Erbe, illustrata alla presenza dello stabile in cui nacque Mascagni.

S. S. (1939)

Maria di Cosimo I° e la Pieve di Sant’Antonio

Agnolo_Bronzino_-_Maria_(di_Cosimo_I)_de'_MediciMaria, figlia primogenita del Granduca di Toscana Cosimo I de’ Medici e Eleonora di Toledo, muore a Livorno in giovane eta (nata a Firenze il 3 aprile 1540). Alcune fonti affermano la sua sepoltura nel castello di Livorno, dove dicono che morì il 19 luglio 1595. (SALTINI G., Tragedie medicee domestiche, Firenze, 1898 pp -1-61).
La Maria Medici venne sepolta a Livorno, nell’Oratorio del Castello, che dopo molti anni prese il nome di Chiesa di Sant’Antonio. Sopra una parete della Chiesa si trovava una lapide che ricordava la Maria e ne segnava la sepoltura (Carte Pieraccini, 6.1: minuta di lettera indirizzata a Gaetano Pieraccini al canonico Balzini del Duomo di Livorno, in cui si chiedono dettagli di questa sepoltura. (8 aprile 1946) in AA..VV Gaetano Pieraccini, L’uomo, il medico il politico. Invece ASFI, Ufficiali, poi Magistratura della Grascia 191c530 (…) Da un arrecante ricerca (ASLI Fondo Sanità 117, Sepolture di cadaveri umani comuni e gentilizie, 1767-1773), la presenza di maria non è documentabile. La stessa chiesa di Sant’Antonio ha subito numerose radicali trasformazioni che non consentono di confermare quanto sostenuto dal Pieraccini.

Illacrimate sepolture: curiosità e ricerca scientifica nella storia delle …