Veduta della vecchia darsena e dell'arsenale

Agostino Tassi e i graffiati di Livorno

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L’origine della «veduta» livornese la dobbiamo a un episodio del tutto fortunato, la presenza nei primissimi anni del Seicento del pittore romano Agostino Tassi (1578-1644), che, confinato a Livorno dal Granduca per scontare una pena inflittagli a causa di una rissa avvenuta a Firenze, ebbe l’opportunità di eseguire numerosi dipinti e disegni della vita marinara e del porto, inaugurando così per primo in Toscana il genere della veduta di paesaggio con soggetti marinareschì.

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Fu grazie a tale accidente che, come egli steso dichiarò, ebbe l’opportunità di viaggiare sulle galere dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano e come riferisce il suo principale biografo, Giovanni Battista Passeri: ”[…] diedesi allo studio di disegnare vascelli, navi, galere porti, borasche, pescagioni, e simili accidenti di mare per avere del continuo avanti agli occhi l’esemplare di questi soggetti. Praticò questo suo studio per qualche tempo, e ne divenne erudito a segno, che occupò il primo luogo in questo particolare, in cui egli per l’addietro non erasi esercitato giammai, ed è giusto che si conservi memoria, di chi a unico in qualche particolarità”.
Dunque il Tassi grazie all’esperienza livornese divenne un “erudito” nella rappresentazione di scene al punto da essere considerato uno dei più grandi italiani del genere. Questa attività grazie alle decorazioni ad affresco e a graffito, oggi purtroppo perdute, da lui eseguite sulle facciate dei nuovi edifici costruiti a partire intorno al 1597.
Come è noto le case livornesi, costruite sull’asse viario che conduceva dal porto verso piazza d’Armi (piazza Grande) e al Duomo, lungo la via Ferdinanda e le strade adiacenti (via del Giardino, via S. Francesco), si sviluppavano su due piani con un giardino posto all’interno e ingresso indipendente. Le facciate degli edifici posti sul fronte della strada furono abbellite da pitture e graffiti secondo un progetto voluto e controllato direttamente dal Granduca. Difficile è oggi stabilire l’estensione e la vastità di questi interventi decorativi in quanto non solo non è stata rinvenuta alcuna testimonianza che ne svelasse il programma complessivo, né un disegno o un’immagine che ne illustrasse l’iconografia, ma anche in ragione del fatto che le ornamentazioni andarono in buona parte distrutte nel corso del Settecento. Nel 1750 in occasione della pace stipulata tra gli gli Asburgo Lorena, l’impero turco e le potenze barbaresche, venne ordinato di coprire di bianco le pitture che, i rspggetti affigurati, non avevano più ragione di esistere. Dobbiamo dunque affidarci alle testimonianze degli storici locali seicenteschi e alle notizie fornite dal Passeri per avere un’idea dei soggetti rappresentati che insistevano sugli scontri navali (imprese) tra le galeree dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano e quelle musulmane, sulle scene di vita portuale ed ”accidenti marinareschi” ”ed in alcuni luoghi con accompagnamento di fabbriche nobili, e di paesi con quantità di figure tutte operanti in affari diversi di pescatori e di marinari”

Nel complesso la decorazione delle facciate assumeva i connotati di un vero e proprio allestimento scenografico di tipo allegorico-simbolico, trattandosi di una lunga “galleria picta” che, attraverso Porta Colonnella (distrutta nel 1838), mediante una linea retta, conduceva dal porto al grande palcoscenico della piazza principale della città, luogo spettacolare-teatrale effimero ed evanescente per eccellenza sede dell’apoteosi, del trionfo, della mitizzazione della dinastia granducale. Qui sulla facciata del Palazzo Granducale, residenza del governatore, edificato lungo il loggiato, Filippo Paladini e Agostino Tassi avevano dipinto la Genealogia degli Dei, ispirandosi ai disegni di Giorgio Vasari eseguiti in occasione della mascherata svoltasi nelle principali strade di Firenze il 21 febbraio 1565, ultimo giovedì di carnevale, per celebrare le nozze del duca Francesco de’ Medici, figlio di Cosimo l, con Giovanna d’Austria, figlia dell’imperatore Ferdinando I. Anche se non è pervenuta testimonianza fìgurativa non è da escludere che i due pittori avessero raffigurato nel palazzo livornese i diversi carri allegorici con soggetti marini, come quelli raffiguranti l’Oceano o Nettuno.
Nelle celebrazioni del 1565 quest’ultimo era ad esempio formato da un enorme granchio, trainato da due cavalli marini, sostenuto da un gruppo di Tritoni e Sirene o delfini, i quali a loro volta poggiavano su uno scoglio ricoperto di conchiglie, spugne, coralli e altri prodotti del mare. Secondo le intenzioni di Ferdinando I e con questo tipo di iconografia, l’immagine che la città di Livorno forniva nella sua piazza principale, era di giungere ad un’apoteosi della celebrazione dinastica strettamente intrecciata a elementi fantasmagorici che ne esaltavano la virtù e la sapienza di emanazione divina. Le pitture con i soggetti marinareschi eseguite dal Tassi e dal suo collaboratore e cognato Filippo Franchini accompagnavano il visitatore occasionale o d’eccezione sbarcato dalle navi che lo avevano condotto a Livorno fino al cuore della città con immagini che gli ricordavano la potenza dei regnanti toscani. Al contempo peró egli doveva essere rimasto affascinato e stupito nel vedere una così vasta esposizione di temi paesaggistici connessi alla vita marinara che non trovava casi analoghi in altri luoghi in Italia, né a Genova, né a Venezia o a Napoli. Le brevi descrizioni dei viaggiatori stranieri non mancano infatti di sottolineare la ‘galleria picta’ di via Ferdinanda come nei caso degli inglesi Iohn Evelyn o Iohn Raymond, approdati a Livorno nel 1644 e nel 1648. Grazie a questi esempi pittorici, che costituirono un caso unico in Italia, immediatamente Livorno assunse.
nell’immaginario cortigiano mediceo, i connotati iconografici propri di una città ’ideale’, subito adottati negli spettacoli di corte, come quello approntato durante il carnevale, il 15 febbraio 1612 a Firenze nel salone di Palazzo Pitti, sotto l’attenta regia di Giulio Parigi, per l’intrattenimento della granduchessa Maria Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo II.
Dalla descrizione fatta Jacopo Cicognini e riportata per esteso da Filippo Baldinucci apprendiamo che lo sfondo dell’azione era ispirato al porto di Livorno.
Il fondale precedeva la rappresentazione che così appariva agli occhi degli ospiti:
”Accese le lamiere – scrive il Cicognini -[…[ si scoperse la scena rappresentante un bellissimo e maraviglioso mare, ché era ragguardevole non solo per i ben composti scogli tutii tocchi d’argento, per i coralli e nicchi […] e per l’innumerabile quantità di lumi che, senza vedersi, solo reflettendo rendevano splendidissima la prospettiva; ma perché di continuo si veddero l’onde marittime l’una dopo l’altra cacciandosi, operare quei medesimi effetti che l’ondeggiante mare ne rapresenta agli occhi nostri […]. Fu da ciascheduno subito riconosciuto il porto di Livorno, la fortezza, e le torri che le stanno vicine e alquanto più lontane, l’altissima torre; sopra la quale splende di continuo fra le tenebre della notte l’acceso fanale, speme, ed amico segno d’innumerabili naviganti […]”.
Lo svolgersi dell’azione – come ricorda la Negro Spina – prevedeva in una prima fase l’arrivo di Nettuno con un corteo di ninfe e sirene intonanti una lunga canzone, nella quale alle lodi consuete in onore degli sposi era aggiunto un avvertimento minaccioso contro l’aspro scita e al moro infido; il clou era costituito dall’arrivo di Tetide, sul carro di spugne argentee, trainato da delfini con ruote di coralli e conchiglie.